Modalità di lavoro imposte dalla strategia commerciale: escluso il mobbing per il lavoratore
Non integra gli estremi del mobbing o dello straining la condotta del datore di lavoro che operi al fine di ottenere performance di vendita più consistenti, senza alcuna finalità stressogena attuata nei confronti dei lavoratori (Cassazione - ordinanza 3 giugno 2025 n. 14890, sez. lav.)
Modalità di lavoro imposte dalla strategia commerciale: escluso il mobbing per il lavoratore
Non integra gli estremi del mobbing o dello straining la condotta del datore di lavoro che operi al fine di ottenere performance di vendita più consistenti, senza alcuna finalità stressogena attuata nei confronti dei lavoratori (Cassazione - ordinanza 3 giugno 2025 n. 14890, sez. lav.)
La Corte di appello di Torino respingeva le domande proposte da una lavoratrice, con mansioni di direttrice di punto vendita, nei confronti della datrice di lavoro, al fine di ottenere il risarcimento dei danni dovuti per condotte mobbizzanti.
La Corte territoriale, da un lato, riteneva che il primo giudice avrebbe potuto riqualificare la domanda di risarcimento originariamente proposta in quella di accertamento della presunta nocività dell'ambiente di lavoro; dall’altro riteneva non raggiunta la prova sulla nocività dell'ambiente di lavoro e sul carattere stressogeno dell'attività lavorativa svolta dalla dipendente, escludendo che la condotta della società potesse integrare gli estremi dello "straining" o del "mobbing", non essendo connotata da finalità vessatoria o stressogena.
Avverso la decisione di secondo grado la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra i motivi, l'errata valutazione delle risultanze istruttorie, relativamente alla responsabilità del datore di lavoro in ordine alla sussistenza di uno stress psico-fisico determinato dalle modalità di lavoro imposte dalla strategia commerciale della società, in una situazione in cui il lavoratore doveva limitarsi a eccepire l'inadempimento datoriale.
La Suprema Corte ha ritenuto non meritevoli di accoglimento le doglianze della lavoratrice, richiamando il principio secondo cui incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Ebbene, nel caso in esame, il Collegio ha ritenuto condivisibili le conclusioni dei giudici di seconde cure che avevano escluso sia l’ esistenza di una situazione di mobbing/straining, sia la sussistenza di una qualsivoglia condotta antigiuridica da parte del datore di lavoro, specificando che le condotte poste in essere rientravano nel potere direttivo e di controllo dell'imprenditore, diretto o mediante l'organizzazione gerarchica che faceva a lui capo e che era conosciuta dai dipendenti, in ordine all'adempimento delle prestazioni cui costoro erano tenuti, senza alcuna finalità stressogena scientemente attuata nei confronti dei lavoratori, ma unicamente con l'intento di migliorare la gestione dell'impresa e il raggiungimento di performance di vendita più consistenti.
Di Chiara Ranaudo
Fonte normativa