Uso indebito della rete aziendale: no al licenziamento se non è provata la durata della navigazione
Illegittimo il licenziamento del lavoratore che abbia utilizzato la rete internet aziendale per finalità personali se il datore non dimostra la durata media giornaliera della navigazione (Cassazione - ordinanza 04 aprile 2025 n. 8943, sez. lav.)
Uso indebito della rete aziendale: no al licenziamento se non è provata la durata della navigazione
Illegittimo il licenziamento del lavoratore che abbia utilizzato la rete internet aziendale per finalità personali se il datore non dimostra la durata media giornaliera della navigazione (Cassazione - ordinanza 04 aprile 2025 n. 8943, sez. lav.)
La Corte d'Appello di Caltanissetta confermava la sentenza del Tribunale di Enna che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore dalla società datrice di lavoro per uso indebito della rete internet durante l'orario di lavoro.
La Corte territoriale, pur ritenendo provato che il lavoratore avesse utilizzato il computer aziendale per finalità personali, riteneva non adeguatamente dimostrata la durata media giornaliera della navigazione su internet, pari a tre ore, come indicata nella contestazione disciplinare, escludendo così la proporzionalità della sanzione espulsiva in assenza di prova certa di tale durata.
I giudici di appello rilevavano, in particolare, che la società non avesse adempiuto in modo preciso e circostanziato al proprio onere di provare non solo l'accesso del dipendente a internet per fini personali, ma anche la frequenza e la durata degli accessi, osservando che la relazione tecnica prodotta dall’azienda non forniva dati univoci e oggettivi circa la durata effettiva della navigazione, limitandosi a una ricostruzione parziale e priva di elementi certi.
Conseguentemente, in difetto della dimostrazione della sistematicità e della gravità della condotta contestata, la Corte si conformava alle statuizioni del giudice di primo grado in ordine alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e alla condanna della società al risarcimento del danno in favore del dipendente.
Per la cassazione della predetta sentenza l'azienda agricola ha proposto ricorso, lamentando, da un lato, l’ omesso esame della relazione tecnica nella parte in cui consentiva di quantificare con precisione la durata giornaliera dei collegamenti del lavoratore alla rete internet e, dall’altro, l’errata interpretazione della lettera di contestazione disciplinare, riguardante l'uso improprio del PC aziendale e la conseguente negligenza professionale, e non esclusivamente la durata esatta della navigazione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo condivisibili le conclusioni dei giudici di merito in ordine alla relazione tecnica depositata dalla società, i cui dati non consentivano di accertare il tempo effettivo trascorso dal lavoratore sui siti web indicati, ma solo il numero degli accessi e l'orario dell'ultimo collegamento, nè la società aveva fornito alcun elemento oggettivo idoneo a comprovare la predetta durata, laddove l'addebito disciplinare, come formulato, individuava proprio nella durata media dei collegamenti uno degli elementi essenziali della condotta sanzionata; pertanto l'onere probatorio gravante sul datore di lavoro non poteva ritenersi assolto in assenza di una quantificazione chiara e documentata.
Il Collegio ha, inoltre, ribadito che la condotta contestata, per essere idonea a giustificare il recesso, doveva presentare carattere di sistematicità e rilevanza temporale e, nel caso di specie, tale profilo risultava indimostrato, come indimostrata era la sussistenza di errori professionali del lavoratore imputabili causalmente all'indebita navigazione in rete. Sul punto, la Corte di merito aveva precisato che, pur se evocati nella contestazione disciplinare, gli errori erano stati considerati dalla datrice di lavoro come circostanza accessoria e rafforzativa rispetto al nucleo centrale dell'addebito, rappresentato dalla sistematica utilizzazione della rete aziendale per fini personali, durante l'orario di lavoro.
I giudici di legittimità hanno, infine, ritenuto infondata la tesi della società, secondo cui la Corte di merito avrebbe dovuto ritenere che la volontà datoriale fosse quella di contestare al lavoratore di essersi dedicato alla navigazione in internet non prestando adeguata attenzione ai propri compiti lavorativi, a prescindere dalla durata della connessione. Tale argomentazione della datrice di lavoro si scontrava con l'accertamento di fatto operato dal giudice di merito, che aveva, invece, correttamente ritenuto che il nucleo essenziale dell'addebito fosse costituito dalla durata della navigazione e che, non essendo stata provata una media giornaliera di tre ore, il licenziamento risultasse privo di giusta causa.
di Chiara Ranaudo
Fonte normativa